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Wednesday 25 June 2014

Capitolo I





G


iorno secondo di luglio, sesta domenica dopo la Pentecoste, quando la Chiesa canta l’introito Dominus Fortitudo e la sacra liturgia percorre il tempo della Peregrinazione, prima che giunga la lieta stagione dell’Avvento. Anno millesimo trecentesimo primo.

Si era chiusa solo da pochi mesi la Grande Perdonanza, il giubileo universale con cui papa Bonifacio VIII erede di Pietro aveva mondato l’umanità dei suoi tanti peccati, disserrando il Regno dei Cieli con le sacre chiavi che il Cristo consegnò all’Apostolo suo predecessore.
 
Una campana risuonò nell’aria ancora buia annunciando l’aurora imminente. L’alchimista si gettò faccia a terra. Prostrato, la sua fronte poteva avvertire il freddo del pavimento di pietra. Contro il petto, l’eco che gli ritornava dal battito del suo cuore. Le braccia aperte come se fosse in croce, le gambe divaricate, affinché l’energia dell’universo lo permeasse in tutte le giunture.
Il sole squarciò l’aria cupa della notte morente, segnando una lunga linea di potenza sul pavimento; fin quando, sommo gaudio, lo raggiunse. Arnaldo da Villanova si sentì inondato di quella forza sovrumana, del suo calore, della sua energia. Sole, maschio, forza, intelletto, vigore: e sapienza, prima d’ogni altra cosa, Sapienza...
Si rialzò, e subito agitò un campanello di bronzo. Nel riquadro della porta apparve un ragazzo dall’aria insonnolita, caduto dal letto per accorrere.
«Avvicinati. Scopriti il braccio sinistro!» gli ordinò ruvido il vecchio.
Il garzone avanzò, intimidito. Sul lungo banco dinanzi a lui, guardava ad occhi sgranati le bocche di alambicchi gorgoglianti sopra la fiamma viva, che rigurgitavano fumi nauseabondi come cuccioli di drago. Decine di strani vasi sigillati, di cui il vecchio non aveva mai voluto svelargli il contenuto né l’uso, altri abitati da cadaveri di rettili squamosi e gibbuti in un liquame trasparente che non permetteva loro di corrompersi. Minerali dalla luce opalescente e sinistra, composti che ammorbavano l’aria con il loro acre tanfo di putredine.
Ma ciò che più lo atterriva, era la cosa che il vecchio nascondeva sotto uno straccio scuro. Da mesi ormai vi lavorava senza tregua, senza che peraltro se ne potesse capire la funzione.
L’aveva scrutato di nascosto, una volta. Era una specie di strano omuncolo con un corpo di terracotta aperto, come un individuo crudamente tagliato in due da una spada affilata. Aveva vene, arterie, capillari, e tutto confluiva verso il centro di quel petto mostruoso, dove si vedeva un organo fatto in similitudine di un cuore umano. 
Il ragazzo rabbrividì. Lo odiava, quel vecchio balordo. Aveva terrore di lui; specie quando, fallito un esperimento, cominciava a tirar giù imprecazioni in un’algebra assurda di arabo e spagnolo.
L’alchimista gli afferrò il braccio con uno strattone.
La lama di un bisturi affilato brillò alla luce della fiamma, e il ragazzo sgomento vide il suo giovane sangue sprizzare nella cavità di un catino d’argento. Chiuse gli occhi, cominciò a bagnarsi di un sudore gelido come l’umore che stilla dalla fronte dei moribondi.
Quanto sangue voleva levargli...?
«Le lacrime sono da Kronos» borbottava il vecchio recitando a memoria la formula degli antichi testi «da Zeus viene la generazione, da Ermes il logos, la collera da Ares, il Sole è il riso: è per il Sole che giustamente ridono le intelligenze dei mortali e il cosmo senza confini!»
Il vecchio era pazzo, oppure votato ai dèmoni. Come aveva ridotto quella piccola cappella, un tempo consacrata al culto! Evocava Kronos, Ermes, Ares, gli dèi crudeli venerati dai pagani.
«Respira, imbecille!» lo sferzò l’alchimista gettandogli una pezza perché si tamponasse la vena aperta. Poi raccolse il catino colmo, e lasciò colare il sangue dentro quella specie di omuncolo che teneva nascosto. Il rosso fluido vitale subito irrorò quei minuti canali di vetro, e l’essere si colorì, parve d’improvviso farsi quasi vivo e reale.
Santa Vergine! Il Catalano aveva creato un idolo, e intendeva nutrirlo con il suo sangue!
Per quel motivo da due settimane gli procurava carne eccellente e buon vino rosso. Voleva salassarlo fino a farlo morire!
«Puoi andare, adesso. Via!» ordinò l’alchimista brusco.
Il ragazzo si voltò su se stesso, infilò la porta, e se la dette a gambe implorando Dio di farlo sopravvivere, perché non avrebbe mai più rimesso piede in quell’antro di dannazione.
Intanto, di fuori, il sole nasceva.
Un nuovo giorno iniziava, in quell’angolo tranquillo della Campagna Romana. Un nuovo giorno benedetto dal bacio ineffabile dell’Animamundi, che lo avrebbe reso capace di compiere la Grande Opera. Arnaldo da Villanova lo contemplò perdendosi nella sua luce. Recitò solennemente la sua preghiera alla Vergine Madre di Dio, sedes Sapientie, Tabernacolo dello Spirito Santo, Rosa mistica, e fonte di ogni umana consolazione.
Si diresse nel profondo vano della finestra che illuminava la cappella di San Nicola, dalla quale si poteva scorgere in lontananza la città di Anagni. Un grato pensiero corse al suo illustre patrono, il Santo Padre Bonifacio VIII, che proprio per favorire i suoi eccelsi studi di medicina ed alchimia gli aveva messo a disposizione la quiete di quel piccolo castello a Sgurgola. Pover’uomo...
Il papa aveva ripreso a soffrire di calcoli renali nonostante bevesse ogni giorno l’acqua curativa che da Fiuggi gli veniva condotta in otri capienti, ben avvolti fra teli di lana perché si serbasse fresca. Diceva di sentire addirittura il calcolo turare il passaggio alle orine, come se fosse un paralitico che si tenesse presso la porta. 
Bisognava fabbricare per lui un amuleto efficace capace di sollevarlo dal dolore con il potere infallibile dell’oro puro, il nobile metallo fortificato dal Sole che presto sarebbe entrato nella costellazione del Leone. Un cinto, un efficace cinto brachiale di cuoio che il papa doveva indossare sempre, per sostenere e riportare nella sua naturale sede quel rene che si era abbassato, causandogli in ciò gran dolore: l’amuleto d’oro finissimo, duro, reso potente dalla virtù dell’astro, avrebbe ulteriormente compresso l’organo malato nel punto essenziale, migliorandone la funzione.
L’alchimista si sfilò dal collo una chiave trattenuta da un cordoncino serico. Mai la toglieva, neppure di notte. Serrava la cassa di ferro dei libri segreti, i rari testi di medicina e scienze occulte che il saggio è tenuto a studiare, senza però aprire i loro misteri al volgo. Come insegna il sommo Aristotele, a comunicare troppi arcani della natura e dell’arte si infrange un sigillo celeste; molti mali potrebbero seguirne.
Sommessamente, come una preghiera, l’alchimista recitò il monito lasciatogli da colui che lo aveva iniziato al sublime Magistero.
Respice arcanum.
Contempla il segreto, tienilo per te soltanto!
Ma qual’era, la natura di questo sublime Arcano?
Il suo Maestro non aveva mai voluto rivelarlo, ed era forse l’unica tra le grandi verità che egli avesse ostinatamente taciuto.
Il vecchio bandì le sue meditazioni, aprì la cassa e ne estrasse il trattato del grande sapiente che il mondo chiama Picatrix. Libro raro e tremendo, quello, dispensario di ricette per comporre veleni micidiali, sostanze capaci di dare la morte in tempi rapidissimi senza lasciare alcuna traccia sensibile. Opera del suo grande iniziatore, l’uomo più sapiente del mondo. Arnaldo era l’unico che ne avesse ereditato il sapere, insieme a un altro giovane, suo antico compagno di studi.
Aggrottò la fronte. Un vago disprezzo gli graffiò il cuore, sopra quel sedimento d’affetto e nostalgia che serbava per l’amico di giovinezza. Dov’era, adesso, Raimondo Lullo?
Da qualche parte in giro per il vasto mondo, forse. Apostolo solerte, voleva portare la Luce agli infedeli di Barberìa, che riteneva vagolanti nella tenebra come ciechi, mentre essi posseggono un bagliore di scienza che offusca il crepuscolo dei cristiani. Cosa ne aveva fatto dell’arcana sapienza alla quale Picatrix lo aveva iniziato?
La sua formazione era stata bruscamente interrotta, e ora giaceva in lui come una larva incompleta racchiusa nel proprio bozzolo. Lullo aveva soffocato le sue ambizioni sotto la lana rozza di un saio monastico, macerato la sua carne a furia di penitenze, convinto di espiare sotto la legge di san Francesco il suo gran peccato: aver osato contemplare contro i sacri precetti le verità di un mondo grandioso, il quale brillò di una luce che non era quella di Cristo.
L’alchimista ricacciò indietro i suoi pensieri malinconici. Aveva troppo da fare per perdersi in dolenti ricordi. Sfogliò con cura il libro del maestro cercando un passo:
Prendi dell’oro puro e fabbrica un sigillo, nel quale scolpirai la figura del Leone, proprio allorquando il Sole si troverà sotto il segno del Leone, nel primo e nel secondo decano e nell’angolo orientale o meridionale, e allorquando la Luna non si troverà nella sua casa e il signore dell’ascendente non sia né diametralmente contrario a Saturno e Marte, né si allontani da questi pianeti. Lega questo sigillo alla cintura o presso le reni. Ho fatto esperienza che colui che lo ha portato su di sé non ha mai più sofferto in seguito.
Oro, sostanza sublime, benché certo diverso dall’Oro dei filosofi che si conquista con la fatica di una vita intera.
L’oro superno è un segreto, e per ciò è chiamato oro chiuso. E il Magistero altro non è che conoscere l’Arcano, il segreto dei segreti di Dio altissimo e sommo.
Rivedeva le facce strabiliate dei cardinali quel giorno di mesi addietro, quando aveva compiuto la Grande Opera al cospetto del papa. Quale intensa soddisfazione mentre lasciava che l’aureo elemento puro, partorito dalla vilissima scoria, l’oro trasmutato dalla potenza delle sue mani, venisse sottoposto a ogni forma di possibile controllo!
Non aveva certo diffuso alla folla degli insipienti, limitandosi piuttosto a dar loro una banale ricetta con la quale potevano fabbricarsi oro da bere:
Preparerai così l’oro potabile: prendi una dracma e mezzo di questa acqua e distillala separandola dal sedimento. L’acqua dovrà essere chiara, come quella di fonte; in essa tu scioglierai l’oro come ti ho insegnato prima. Una volta sciolto l’oro, distilla l’acqua con l’oro a fuoco lento sino a che tutta l’acqua sia evaporata. Quest’acqua è il fondamento e lo spirito di ogni tintura aurea, perché è la più perfetta.
Un gran numero di persone, specie i prelati, facevano bollire pezzi d’oro nella loro cucina; altri lo assumevano dentro piccoli pani accompagnati da un elettuario o sotto forma di limatura, come nel medicamento chiamato dyacameron. Altri tenevano in bocca pezzi d’oro succhiandoli come una metallica pastiglia. Basta una piccola quantità durante l’anno, per preservare la salute e permettere il rigenerarsi dei principi vitali.
L’oro è l’Arcano Massimo fra quanti l’uomo conosca, perché racchiude in sé la mappa con cui fu edificato l’Universo. L’oro risana i corpi, leva il grido di guerra e stringe la pace, fa vendere la fede, compra l’onore.
Esiste forse un Arcano così forte da sopraffare la legge dell’oro?
Uno soltanto, pensò l’alchimista beffardo; lo stesso che mosse gli Achei contro Troia regale e superba.
Cosa mai valgono potere e denaro, vigore fisico, ingegno e sapienza, dacché la nostra natura è nata schiava? La scintilla di un istinto primigenio riduce l’uomo migliore a un nonnulla, un succube fantoccio prono al capriccio di una femmina! Quanto sono rari, e quanto superiori alla marmaglia bestiale, coloro che si affrancano da simili catene!
Il vecchio scosse amaramente la testa, ripose il libro segreto nella sua fida custodia, nascose la chiave dentro le profondità del saio di tela grezza, intocca da profane tinture. Doveva essere cauto, specie in tempi oscuri come questi, quando la tenebra del fanatismo tiene il genere umano prigioniero dell’ignoranza più cieca. Non doveva finire come quel sapiente inglese, l’illustre Gerardo arcivescovo di York che studiava i segreti astrali descritti dallo scienziato pagano Firmico Materno.
Un giorno, sentendosi malfermo in salute, Gerardo aveva congedato i suoi cappellani per restare da solo in giardino a riposare, occupato nella sua amata lettura. Al loro ritorno, i famigli l’avevano trovato morto. Sotto il cuscino ove poggiava la testa rinvennero una copia del libro di quel pagano, la Bibbia dell’astrologo.
Era un abominio, chiamare come le Sacre Scritture quella scienza sinistra e profana, praticata da uomini ciechi che adoravano i demoni, il sole e la luna, i mari, le acque dei fiumi, e ogni sorta di animali immondi!
Inorriditi, traviati dalla loro stessa ottusità, i famigli avevano creduto che la morte improvvisa del prelato, giunta senza il sacramento dell’estrema unzione, dipendesse da quel libro empio pieno di oscuri artifici magici. Così Dio condannava la passione di Gerardo verso le scienze occulte, e intendeva dare un severo monito a tutti gli altri. Mentre la salma veniva portata in città, alcuni giovani si accanirono a tirar sassate contro la bara, e il clero vietò che fosse tumulata nella cattedrale. Quale piaga orrenda e rovinosa rappresenta l’ignoranza per la libertà degli uomini!
Arnaldo sospirò. Almeno, il suo buon patrono l’Apostolo non soffriva di simili ottusità, ed era uno dei mecenati più illustri nelle arti della medicina. Quanti medici eccellenti aveva avuto, papa Bonifacio! Tutti i più celebri del mondo cristiano erano stati al suo servizio, e molti giudei pure, come quel Giovanni di Capua che aveva tradotto per lui l’indispensabile trattato Sulla Dietetica di Mosè Maimonide.
Ma il più insigne fra tutti, era il veneto Pietro d’Abano. Un uomo coraggioso che aveva descritto i poteri del Sole, il quale sta in cielo come il cuore negli esseri animati. Ammirevole, il suo trattato sulla geomanzia degli arabi, che vedono le linee del futuro gettando un pugno di terra su una tavola di pietra, e ne decifrano le arcane figure. Insegnava che la terra vive, possiede un’anima palpitante, e come tale parla a quanti la sanno ascoltare. E poi, era venuta l’Inquisizione. Pietro era sparito. Che ne era stato di quell’intelletto luminoso, di quella mente sublime, dopo che i velenosi maestri di Parigi lo avevano denunciato per empietà?
Arnaldo da Villanova sentì un dolore acutissimo nel petto, in quel momento. Nessuno meglio di lui poteva sapere quanto fossero subdoli, vigliacchi e invidiosi i teologi della Sorbona. E chi li dominava, colui che avrebbe dovuto moderarli e guidarli, era invece di gran lunga peggiore di loro.
Maledetto re Filippo IV!
Il vecchio si fece immediatamente il segno della croce. Pregò intensamente Dio di non dover mai più tornare lassù, di non rivedere quell’uomo spaventoso per tutto il tempo della sua vita. Quale atroce umiliazione aveva patito!
Era stato dannatamente ingenuo, a fidarsi di loro. Ogni volta che ripensava a quegli eventi, il suo sangue s’intorbidiva di livore, il cuore traboccava di un reflusso malefico. La mente s’arrampicava verso la mèta di una vendetta che sapeva impossibile, agitata da una volontà perversa, velenosa come il vetriolo.

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